QUADRURE, L’ARTE INTERIORE DEL NON VOLER MENTIRE
di Francesco Conte
Le Quadrure di Monica sono dei fiori cannibali con il polline dentro. Prendi viscere di materiali in una scatola densa, mischia di sabbia e cospargi di colore di India, Cambogia o Guatemala. Avrai, forse, una quadrura. Un quadro-scultura, eccolo, fatto di scheletro e pelle, un incrocio tra un callo e un monte, dove il microcosmo assurge a ineffabile istante. Dolore? Piacere? Che cosa se non questo misterioso paradosso potrebbe produrre la vertiginosa creatura che dalle mani di Monica prende forma e direzione. È un percorso rapido quello di Monica Pennazzi, che dalle dorsali di tela e rampicanti di quadro passa al colore del cielo, al ri­tratto di donna tra il legno di una cabina lontana, tra il fiume e l’ombra della veranda. Essere con Monica davvero è un’esperienza gratificante: lavora instancabilmente, sfidando pure le inalazioni di vetroresina e gli assalti del cane Hobbes. Spirali, sfere, specchi e spicchi di materico caos vengono assemblati con minuzia di artigiano e orizzonte d’artista alle prese con il piccolo mondo mo­derno. È così che il laboratorio creativo Atopos ha conosciuto Monica, sporca di rosso terra nel tentativo di mettere a punto instal­lazioni labirintiche e performance improbabili. «Ma cosa significa installazioni?» si chiede ogni tanto polemica Monica “Per l’arte ci vuole pure la tecnica. Bisogna far risuonare un linguaggio di gesti e conoscenze, non basta solo mostrare, mostrare, mostrare.” Veder lavorare Monica, ribattezzata Quadrure in quel di Atopos, ti fa quasi sentire pigro mentre lei si contorce da un lato all’al­tro, allungandosi sopra l’opera come se fosse un paziente da rianimare. Determinata, caparbia e senza mezze misure, Monica è pronta ad abbandonare ogni creatura in nome di una ricerca che deve andare oltre. «Finalmente ora mi rendo conto di quanti stadi ho passato con le mie quadrure» − riflette a voce alta di fronte alle ultime opere lasciate in quel di Atopos. Dalle mani di sabbia e fil di ferro fino al denso rosso della tela scolpita nell’aria, Monica attenta allo sguardo del casuale passante lasciando che le sue opere crescano proprio nello spazio che divide il guardare dal fare, l’arte dalla cultura. Non c’è quadrura che non sia tridimensio­nale, rilievo spremuto di dentro, forza centrifuga tesa a colpire con la forza di un odore, con la tentazione del tocco. Toccare la quadrura però può esserle fatale, come una cattedrale apache sull’intatto deserto, distrutta dopo essere stata assemblata granello per granello. In una parola, o poco più: la quadrura è un tabù, un totem che cresce verso l’occhio del visitatore, minacciandolo di scomparire se mai egli volesse finalmente sfogliare l’emozione e sentirsi di nuovo il vero protagonista dell’esperienza estetica. La quadrura non è estetica, piuttosto è l’anima intatta di un interno divenire. E preferisce perire piuttosto che imparare a mentire.


IL LAVORO NECESSARIO di Andrea Barbadori

Ho sempre creduto che il còmpito, la funzione della creatività sia quella di risolvere, di rivelare. Di risolvere in un’opera, in una forma compiuta, momenti esistenziali importanti che, se irrisolti, ci impediscono di vivere piena mente. Di rivelare, attraverso questo atto creativo, una verità nascosta, inconfessata, inespressa. Verità inerenti la propria vita così come la vita, quella di tutti, l’esistenza. Ci sono verità che non sono incarnate nel mondo, ma che si rivelano attraverso le cose del mondo: come se il mondo fosse una metafora, l’espressione materiale di verità che non si rivelano da sole attraverso l’incarnazio ne, la materia, ma che determinano, creano, tengono in vita il mondo materiale. Così la sessualità, ad esempio, diventa la metafora della forza creatrice, dell’energia che dà origine alla vita. La sessualità dei fi ori, degli animali, degli umani, del creato, infi ne, rappresentano la stessa energia, luce, vita che li rende vivi, incarnati nel mondo materiale. Vogliamo provare a rappresentarla, a rivelarla andandola a guardare in faccia? Proviamo a farle un ritratto, a descrivere il suo volto senza le fattezze materiali, senza la maschera. Ho incontrato Monica su questa strada, durante lunghe conversazioni che trattavano di tutto fuorché di pittura, scultura o di poesia o musica, bensì di noi, della fatica – e della meraviglia – del vivere. Delle nostre passioni, le paure, i desideri. Spesso delusi, con fusi, noi doloranti e la nostra vita in un momento di passaggio, in un momento critico, di cambiamento. Ogni giorno ce n’è uno. Ogni giorno qualcosa si risolve, noi lo riveliamo, oppure qualcosa ci sfugge e continuiamo a vivere un disagio, una sofferenza. Abbiamo accompagnato Monica nei suoi viaggi, noi che la frequentiamo nel tempo dei giorni, e lei è tornata sempre con una conquista, una visione da materializzare, qualcosa da rivelare. Come ad altri risulta facile ballare, comporre canzoni, scrivere o disegnare, lei facilmente usa una tecnica tutta sua, che rende le sue opere il risultato di una spinta che la costringe a fare. Così come nel tempo il viaggio lo è fuori e dentro di sé – se il viaggio è vero – Monica viaggia là dove non c’è tempo né materia con lo stesso entusiasmo e coraggio. Quando torna, non torna mai a mani vuote, e si sente, si vede che è stata là dove sgorga ciò che possiamo vedere qui, nel tempo dei giorni e delle notti. Così, le polveri colorate indiane sono quanto di materiale resta del viaggio in India, e serviranno per comporre la veste delle opere che verranno alla luce dopo quel viaggio. Le forme si fanno tonde, nelle ultime opere, ordinate. Armoniose. I colori perfetti, veri, fatti di polvere, di terra, di materia colorata. Le forme leggere, come stoffe, chiare e defi nite nella luce, nella forma, nella visione dell’origine loro. “Respiro” è come sabbia che si muove al vento, leggera. Nella notte, nel buio, un soffi o rosso di viscere e di fi ori, di polvere e pol lini. Eccola, la sessualità svelata, il grembo rivelato. La nascita, il desiderio, la passione. Ecco il volto dietro le fattezze umane. “Sussurri” è composto, invece, da striscioline di carta ritagliate dall’elenco del telefono, è leggerissimo. Leggero come solo si può essere quando si affronta la pazienza necessaria per tessere, con resina e carta, striscioline una sull’altra fi no a farne un tessuto. Di nomi, di corpi, di numeri, di materia viva di ognuno di noi. Pesantissimo tessuto di esistenze, leggerissimo l’oggetto che lo rappresenta. Con un buco, come fosse nella scollatura tra le falde di un vestito, da dove si può uscire dal tempo e fi nire di là, dove Monica viaggia e da dove torna. Lo fa perché è necessario; perché così può risolvere, rivelare sé stessa attraverso le sue opere, e vivere meglio. Come nell’ultima sua opera che ho conosciuto, “Sorgente Sgorga”, pulita, immobile eppure da lì si muove, inizia la cascata, nell’acqua ferma, che pare aria cristallizzata, vento immobilizzato, un attimo, meraviglia pulita nell’istante prima di essere.


LE ”QUADRURE” DI MONICA PENNAZZI

di Maurizio Vitiello

Con le sue Quadrure si salta la disciplina pittorica e quella plastica. Su tecniche miste, denominate, appunto dall’artista, Quadru­re, si innestano e si coagulano campi cromatici e rilievi sagomati e ciò porta ad intendere che i lavori sono e risultano: quadri-scul­ture. Chi ricorda un lavoro di Burri alla GNAM di Roma lavorato e sviluppato su entrambi i lati, ma solo uno visibile in mostra? Nel solco e nell’ambito di un linguaggio volutamente astratto riesce a determinare opere che delineano immagini sintetiche. Linee, forme e colori principiano, per riflesso espressivo, da indagini intime ed esprimono una rete di contenuti motivati. Proprietà e precipitati di qualità delle singole materie utilizzate sorreggono, poi, scelte operative.

L’artista tra Burri, i principi nobili e di fine espressione poetica dei maestri dell’ “informel” segue il proprio “fil rouge” di opinione e di sentimento. L’assetto plastico delle opere della giovane artista è sinceramente determinato dall’impiego di vari e diversi mate­riali, modellati con estrema cura e fine sensibilità. La tela diventa altro, spinge una nuova concezione e si trasforma ad accogliere supporti di legno pressato. Spostando il confine della rappresentazione si figura una realtà non più ipotetica, potenziale e virtuale, bensì una realtà “tout-court” e, quindi, possibile e certa. La realtà costruita è visibilissima, tangibile e tattile. Da un’immagine di procura bidimensionale si arriva ad una lecita e legittima amplificazione resa dalla tridimensionalità. Nelle Quadrure i materiali, che vanno dai colori acrilici agli smalti sintetici, dalle vernici a spruzzo alle sabbie, dai tessuti ai legni, da oggetti semplici ad oggetti complessi, vengono “macchinati” e predisposti ad accogliere cerchi, curve, onde ed ellissi.

Quest’ultima produzione di Monica Pennazzi convoglia un’attenzione critica, perché interessanti caratteri sono elevati a ricerca. Oggi nelle impostazioni cromatico-strutturali dell’artista emerge una pregnante versione stilistica, sottolineata da rese autentiche e combinazioni informali, che si aggregano e si contrappongono nella decisa e costante fecondità gestuale, che motiva anche metafore esistenziali di forte e solida valenza. L’artista tende ad assemblare, per andamenti circolari, forme accentuate, plasmate, ad esempio, da selve e sequenze di mani, riprese, quasi a modello, da fiori carnosi, nonché variegate aperture neo-figurali, cali­brate, successivamente, da virtuosi registri cromatici. Il suo cuore batte per le vicende del mondo e le sue mani traducono moti dell’anima.

Attraverso la palpitante stratificazione di segni, segnacoli e segnature e di curvilinei addensamenti cromo-strutturali approda a visioni calde del mondo e propone, nel contempo, squarci e scenari sulla terribilità della natura e sulle mani rapaci dell’uomo, che premono su vivibilità di contesti pacifici. Il rincorrersi di cerchi e curve di un’anima di ferro rivestita di tessuto o altro, talvolta, co­perto, poi, da colori riempie ritmi arcani e predispone incessanti sonorità moderne. Monica Pennazzi imbastisce tecniche miste di raffinato compendio e di sottesa dinamicità e su verticalizzazioni, attraversamenti, onde e segmenti circolari naviga la sua mano, che è sempre alla ricerca di risposte. Le sue Quadrure denunciano partecipazione e travalicano enigmi formali e mute evidenze.Le opere di Monica Pennazzi ci rimandano il suo desiderio generoso di commentare la cruda realtà dei nostri giorni con i suoi raccapriccianti brividi, i suoi infiniti fantasmi, le sue incalcolabili incertezze, ma anche con relativi addendi positivi. In realtà, non è effimero il “ductus” cromo-plastico dell’artista e nella certezza di colpire il fruitore colloca ed espone dubbi sull’utilità del no­stro mondo per indurlo a riflettere. Grazie ad una poetica ecologica espressa con forte orgoglio e psicologica prontezza inquadra argomenti da affrontare, da esaminare, da valutare e da rimettere in gioco.

La giovane artista utilizza una chiave estremizzata e sembra voler suggerire ascolti e meditate visioni. Spaccati di detonazione linguistica si offrono in lavori che s’impongono come possibili riepiloghi. Le spaccature, le corrosioni, gli scontri cromatici, i tocchi di pigmenti, le visioni fantastiche che s’apprezzano nei lavori ultimi di Monica Pennazzi alimentano lo sguardo sulla vita, sia quella globale che locale, ed invitano a misurare e a cadenzare dialoghi. Le sue avvincenti elaborazioni inseguono motivi dell’esistenza e sostanziano scene su scene e stringono, così, la realtà ed hanno voglia di “entrare nel mondo”.

I cittadini delle nostre metropoli conquistano faticosamente il proprio spazio vitale ed è sempre più duro affermare la propria personalità. Lo stress impera e bisogna sempre trovare soluzioni, uscite di sicurezza, la propria via di fuga. Ma le idealità superano la corteccia della vita, ma, al tempo stesso, si sa che una qualunque opera non può nascere al di fuori dei contesti in cui matura, anche da quelli finitimi al sogno.


QUADRURE

by Maurizio Vitiello

In Monica Pennazzi’s Quadrure, the disciplines of painting and sculpture are being jumped ahead. With mixed techniques, that the artist has indeed renamed Quadrure, colour fields and contoured reliefs graft and coagulate so that we are brought to perceive that her works are and prove to be both paintings and sculptures. Who remembers an art piece by Alberto Burri at the National Gallery of Modern Art of Rome where both sides had been developed but only one was exhibited? In the wake and within the sphere of a purposefully abstract language, she creates works that outline synthetic images. Lines, shapes and colours originate – through expressive reflexes – from her intimate analysis to express a mesh of motivated contents. Furthermore, the properties and qualities of the specific materials she uses support her operational choices.

The artist, although setting herself among Burri and the noble principles and refined poetic expression of the masters of the Art Informel, follows her own thread of opinion and feeling. The sculptural set-up in this young artist’s works is conspicuously deter­mined by the use of several different materials, modelled with extreme care and sensitivity. The canvas becomes something else, it pushes towards a new concept and transforms itself to receive pressed wood supports. By shifting the limits of the representation, it does not emerge a hypothetical, potential or virtual reality but rather a reality-per-se and therefore possible and secure. The reality that is constructed is visible, tangible and tactile. From an image of bi-dimensional research, she arrives at a licit and justified am­plification caused by the tri-dimensionality. In the Quadrure the materials, that range from acrylic colours to synthetic varnishes, from spray paints to sands, from fabrics to wood, from simple objects to complex ones, are being “devised” and arranged to admit circles, curves, waves and ellipsis.

These latest productions of Monica Pennazzi create critical attention as interesting aspects are heightened at objects of research. Today, from the chromatic and structural approach of the artist, emerges a meaningful, stylistical interpretation, underlined by authentic aesthetic outcomes and informal combinations, that come together and contrast with each other in the bold and steady fecundity of the gesture, that also motivate existential metaphors with a strong and solid value. The artist, through circular mo­vements, tends to assemble accentuated shapes, moulded, for example, from forests and hand sequences − almost taking some fleshy flowers as models − as well as multicoloured neo–figural openings, calibrated, in the end, with virtuous chromatic scales. Her heart beats for the events of the world and her hands translate the impulses of her soul.

Through the pulsating stratification of signs, symbols, markings and curvilinear chromo-structural thickenings, she delivers warm visions of the world and, at the same time, proposes shreds and scenarios on the fearfulness of nature and man’s rapacious hands that put their pressure on the “livability” of pacific contexts. The whirls of the circles and curves, with their iron inner layer, covered in fabric and other materials − at times, covered with colours − fill us with archaic rhythms predisposing us to incessant modern sounds. Monica Pennazzi combines mixed techniques, in a refined synthesis that have an implicit dynamism, and her hand travels by vertical lines, intersections, waves and circular articulations in a continuous search for answers. Her Quadrure reveal partici­pation, they move across formal enigmas and mute certainties.

Monica Pennazzi’s works show us her generous desire to comment on the crude reality of our times, with its horrifying tremors, its infinite phantoms and its uncountable uncertainties though, at the same time she includes its positive aspects. The chromatic and sculptural choices of the artist are not ephemeral. Confident in her capacity to attract the attention of her public, she places and voices her doubts on the utility of our world as an exhortation to think. Thanks to an ecological poetry expressed with great pride and psychological promptness, the artist is able to capture issues to be confronted, examined, evaluated and reconsidered.

The young artist uses intensified terms and seems to suggest attention and meditated visions, cross sections of linguistic explosion present in works that impose themselves as possible overviews. The cracks, corrosions, chromatic contrasts, the touches of pig­ment and the fantastic visions that are appreciated in the last works of Monica Pennazzi nourish an outlook on life, both global and local, and invite us to measure and scan our dialogues. Her compelling elaborations pursue reasons of existence, substantiate scenes upon scenes, make a close-up on reality and have the desire to “enter into the world”.

The citizens of our metropolis conquer their own living space with painstaking efforts and it is getting harder for them to claim their own personality. Stress reigns and it is more and more necessary to find solutions, emergency exits, our own escape routes. Even though abstractnesses are greater than the surface of life, still no piece of art can be created out of the context in which it matures, including those contexts that abut on dreams.