Dopo aver ideato un metodo per misurarlo, l’individuo è arrivato a pretendere di piegarlo sotto la spinta irrefrenabile del desiderio di essere. Quando questo convoglia la spasmodica tendenza vitale in un’intenzione e con dedizione persevera nella sua indagine, giunge alla formulazione di una teoria. Monica Pennazzi, con un’opera che valica la soglia dei suoi lavori precedenti, ha sintetizzato la sua empirica “teoria della linea”.

Dopo opere come <em>Cunauta</em> e <em>La</em> <em>formula</em> <em>dell’amore,</em> dove il supporto sostiene dell’articolato sistema di fasci in tensione, l’artista abbandona le forme suadenti delle intelaiature a favore di una progressione libera e voluminosa delle linee. Sempre accompagnata dalla realizzazione di un modello preliminare che mette in ordine le riflessioni, la tessitura diventa sempre più metodica e paziente, distante dal suo compimento non dallo scorrere dei giorni e delle ore, ma dalla messa in tensione di 12.000 metri di filo.

Assorta nel tempo, la trama fluttuante di fili elastici sfruttano gli elementi architettonici dello spazio per tracciare complesse iperboli che raddoppiano i piani dimensionali, circondando il vuoto e condurlo verso una forma possibile.

Assolta dal tempo, l’opera tratteggia i volumi strutturali di un’ambiente armonioso, monumentale quando la luce diffusa la mostra in tutto il suo meticoloso apparire. Calato il buio invece, illuminata dal bagliore di un lume, le linee si amalgamano e perdono la progettualità dell’azione, diventando luogo intimo, spazio sacro, abitato dalle ombre delle cose dove nei molteplici riflessi dei fili si coglie <em>La teoria della linea</em>.

Testo di Marco Tittarelli

Foto di Paolo Zitti